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Responsabilità dell’avvocato e dovere di dissuasione

Corte di cassazione civile sentenza 6782/15 del 02/04/2015.

La responsabilità professionale deriva dall’obbligo ( art. 1176 c.c. , comma 2, e art. 2236 c.c. ) di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, ai quali sono tenuti nel rappresentare tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di chiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole.

Con il primo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 106, 112 e 346 c.p.c. , in relazione all’art. 360 c.p.c. , n. 4, per non avere la corte distrettuale pronunciato sulla domanda di manleva da lui proposta in primo grado nei confronti dell’Assicurazione e riproposta in appello dalle appellanti, non imponendo l’art. 346 c.p.c. , l’espressa riproposizione della domanda non accolta nella sentenza di primo grado da parte dell’appellato, ma solo la sua proposizione tout court. L’illustrazione della censura conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “…se in appello debba ritenersi non rinunciata ai sensi dell’art. 346 c.p.c. , e debba quindi essere esaminata la domanda di manleva proposta in primo grado dal convenuto nei confronti di un terzo chiamato in causa da cui pretenda di essere garantito, qualora nelle conclusioni dell’atto di appello lo stesso appellante, attore in primo grado risultato soccombente, abbia riproposto – oltre alla domanda principale – anche la domanda nei confronti del terzo chiamato in causa in primo grado e citato in giudizio in appello come appellato”.

La censura risulta immeritevole di accoglimento.

Occorre precisare che il vizio di omessa pronuncia è configurabile – e può essere utilmente prospettato – soltanto in ipotesi di mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che richieda una espressa pronuncia di accoglimento o di rigetto ed è pertanto da escludere ove ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della domanda o di un suo assorbimento in altre statuizioni (v. Cass. 3 giugno 1991 n. 6248; Cass. 29 marzo 1995 n. 3693; Cass. 15 maggio 1996 n. 4498).

Va, altresì, sottolineato che l’azione di responsabilità contrattuale ex artt. 1218 e 2236 c.c. , è stata proposta dalle attrici, in qualità di eredi di Pe.Gi., nei confronti dell’Avv. P. e del M., rispettivamente difensore e consulente di parte nel giudizio introdotto ai sensi dell’art. 2054 c.c. , dal loro dante causa, mentre la chiamata in causa, ad opera dell’avvocato convenuto, della Generali Assicurazione s.p.a., si fonda su titolo diverso, attenendo a forma di responsabilità contrattuale conseguente alla stipula di polizza assicurativa, per cui si configura, rispetto alla prima, quale fattispecie di garanzia impropria.

Soccorre, in proposito, l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità, cui il Collegio intende dare continuità, secondo il quale, nel caso di chiamata in causa per garanzia impropria – che si verifica allorchè colui che sia stato convenuto in giudizio dall’attore intende essere rilevato dal garante di quanto sia eventualmente condannato a pagare – l’azione principale e quella di garanzia sono fondate su due titoli diversi, con la conseguenza che le due cause sono distinte e scindibili (v. Cass. n. 1077 del 2003).

Nella specie, avendo il P. (attuale ricorrente) chiamato in causa la compagnia di assicurazione, esperendo nei suoi confronti un’azione di garanzia impropria – per quanto sopra esposto – deve escludersi in appello l’inscindibilità delle cause ai fini della norma sull’integrazione del contraddittorio nelle fasi di impugnazione ( art. 331 c.p.c. ) in una situazione processuale caratterizzata dalla circostanza che la chiamata, una volta che il primo giudice ebbe ad accertare che la domanda principale era infondata ed ebbe quindi a rigettarla, è venuto a mancare il presupposto della domanda di rivalsa, nè le attrici (appellanti) hanno proposto domande nei confronti dell’Assicurazione (v. Cass. 25 maggio 1995 n. 5747; Cass. 19 maggio 1997 n. 4443).

Del resto basti rilevare che la chiamata in garanzia impropria proposta dal convenuto integra una domanda che presuppone la soccombenza dello stesso (garantito) nella causa principale e che pertanto, nell’ipotesi di rigetto della domanda principale (come, appunto, nella specie), la domanda di garanzia deve essere riproposta in appello nella forma dell’appello incidentale, condizionato, non essendo sufficiente la riproposizione, ex art. 346 c.p.c. , della domanda non esaminata o respinta dal primo giudice, poichè la richiesta dell’appellato non mira alla conferma della sentenza per ragioni diverse da quelle poste a fondamento della decisione, ma tende alla riforma della pronuncia concernente un rapporto diverso, non dedotto in giudizio con l’appello principale (v., di recente, Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 9535 del 2010 e Cass. n. 5249 del 2006; ma prima già Cass. 4 febbraio 2004 n. 2061; Cass. 15 marzo 1995 n. 2992; Cass. 1 giugno 1989 n. 2671; Cass. 31 luglio 1987 n. 6633).

Parte resistente non offre argomenti che valgano a mutare un orientamento che (salvo alcune isolate pronunce difformi) trova conferma in un imponente quadro di decisioni costanti nei tempo ed è coerente con il carattere scindibile della cause – principale e di garanzia – di cui trattasi. Va aggiunto che è pacifico e, comunque, emerge dalla decisione impugnata, che, a fronte dell’appello proposto dalle Pe. – N., l’Avv. P. non propose appello incidentale condizionato, limitandosi a richiamare in via estremamente gradata l’istanza formulata in primo grado nei confronti del proprio assicuratore.

Con il secondo motivo il ricorrente nel denunciare insufficiente motivazione, deduce che il giudice distrettuale non avrebbe tenuto conto – nel considerare la richiesta delle appellanti contenuta alla condanna del solo importo di Euro 77.468,00 riduttiva rispetto all’integrale indennizzo – che il motivo per il quale vi era stato l’abbandono della causa di risarcimento del danno, ossia il conseguimento dell’intero massimale dall’assicurazione da parte delle attrici. A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto: “…se sia o meno sufficiente la motivazione che, in una causa di responsabilità professionale dell’avvocato, ritenga palesemente riduttiva la richiesta risarcitoria accolta a carico del patrocinatore inadempiente rispetto all’integrale indennizzo conseguibile dalle parti attrici, senza tenere in nessuna considerazione la circostanza – pacifica fra le parti ed espressamente ammessa – che è stato pagato il risarcimento nei limiti del massimale di polizza da parte dell’assicurazione”.

Il secondo motivo di ricorso non può essere accolto in quanto la motivazione contenuta nell’impugnata sentenza non presenta gli errori logici e giuridici oggetto del ricorso. In particolare va rilevato quanto segue.

L’assunto della Corte di merito secondo cui la tesi difensiva in questione – circa la messa a disposizione da parte della UNIPOL (società che garantiva il veicolo danneggiante) dell’intero massimale di polizza che costituiva la ragione per la quale il giudizio presupposto era stato abbandonato, nella consapevolezza anche delle stesse attrici – non poteva essere condivisa dal momento che il risarcimento del danno corrisposto era stato interamente assorbito per il rimborso delle spese e degli oneri previdenziali sostenuti dall’Inail, senza che le danneggiate avessero percepito alcunchè, evocate in detto giudizio tutte le parti responsabili dell’occorso (oltre che nei confronti della società assicuratrice del mezzo investitore, anche del conducente e dei proprietario dell’autoarticolato), per cui effettuato un giudizio prognostico favorevole (sulla base del c.d. criterio della probabilità logica intensa come atto o elevato grado di probabilità razionale o probabilità logica) quanto all’esito della causa, ha concluso per la fondatezza della domanda di riconoscimento della responsabilità professionale, ragionamento che è immune dai vizi affermati dal ricorrente ed in particolare è giuridicamente corretto.

Infatti la Corte d’Appello ha evidentemente ritenuto insussistente la rinuncia ovvero l’abbandono della domanda per il concorso delle predette circostanze, operando la limitazione del massimale di garanzia solo nei confronti dell’Assicurazione, per cui tale statuizione appare immune dai vizi denunciati.

Con il terzo mezzo il ricorrente nel denunciare insufficiente motivazione, deduce che la corte distrettuale nell’esaminare il solo probabile esito favorevole del giudizio presupposto nei confronti del conducente, senza motivare in alcun modo se alla conclusione positiva per le attrice sarebbe potuta conseguire un’utilità economica stante l’indimostrata solvibilità della persone fisiche responsabili, a fronte dell’integrale pagamento del massima di polizza da parte dell’assicurazione. A corollario del mezzo è formulato il seguente quesito di fatto: “…se sia o meno sufficiente la motivazione che per verificare la sussistenza del danno in ipotesi di responsabilità professionale dell’avvocato si limiti a valutare solo il probabile esito del giudizio risarcitorio nei confronti dei responsabili e non anche sul punto controverso e decisivo se sussiste – ed in che misura – la solvibilità dei responsabili”.

Il mezzo è inammissibile prima che infondato.

Va, infatti, osservato che la omessa valutazione da parte del giudice dell’impugnazione della solvibilità o meno dei responsabili del sinistro, oltre ad attenere a circostanza estranea alla controversia de qua, riguardando l’utile esperimento delle azioni esecutive una volta ottenuta pronuncia definitiva favorevole, è inammissibile in virtù dell’assorbente considerazione che si tratta di questione nuova, proposta solo nella presente sede di legittimità Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la omessa motivazione per avere accertato la responsabilità di entrambi i convenuti senza tenere conto della diversa posizione degli stessi; in particolare, il rag. M. si era recato con una delle eredi Pe. ed aveva ritirato gli atti processuali dopo che la compagnia assicuratrice aveva comunicato di mettere a disposizione l’intero massimale, circostanza che era rimasta del tutto fuori dalla motivazione. Il mezzo è illustrato dalla formulazione del seguente quesito di fatto: “…se sia o meno omessa la motivazione su un fatto decisivo e controverso laddove la corte di appello in un caso di responsabilità professionale dell’avvocato originata dall’abbandono del giudizio ometta ogni riferimento in motivazione alla dedotta e non contestata revoca dell’incarico con ritiro dell’incartamento da parte del giudice, precedente all’abbandono del giudizio stesso”.

Anche a quest’ultima censura non può essere dato ingresso.

Nelle prestazioni rese nell’esercizio di attività professionali al professionista è richiesta la diligenza corrispondente alla natura dell’attività esercitata ( art. 1176 c.c. , comma 2), vale a dire è richiesta una diligenza qualificata dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di prestazione dovuta. La valutazione dell’esattezza delle prestazioni da parte del professionista, naturalmente, varia secondo il tipo di professione.

Per gli avvocati, la responsabilità professionale deriva dall’obbligo ( art. 1176 c.c. , comma 2, e art. 2236 c.c. ) di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, ai quali sono tenuti nel rappresentare tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di chiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole (Cass. 30 luglio 2004 n. 14597). il problema si è già posto con riferimento alle ipotesi di inadeguata o insufficiente attività come difensore, per omissione di impugnazioni, ecc, o nella violazione di regole ricavabili dal codice deontologico, come quelle del mancato assolvimento dell’obbligo di dare al cliente le informazioni chieste e della violazione del segreto professionale (Cass. 23 marzo 1994 n. 2701).

Nella specie, l’avvocato P. aveva l’onere di provare di essersi attivato nell’informare le resistenti della sua determinazione di non proseguire il giudizio per essere stata la pretesa soddisfatta dall’Assicurazione, dubbio l’esito rispetto agli altri debitori. Su tutto questo nessuna prova è stata articolata dal ricorrente, nè allegata.

Conclusivamente, il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di Cassazione seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo, sono posta a carico del ricorrente.

Infine osserva il Collegio che nessun provvedimento può adottarsi ai sensi dell’art. 385 c.p.c. , comma 4, nel testo applicabile ratione temporis, come richiesto dal Pxxx Dispone – infatti – la invocata disposizione (introdotta con decorrenza dal 2 marzo 2006 dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 12, e abrogata con decorrenza dal 4 luglio 2009 dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46) che quando pronuncia sulle spese.xxxxxdi una somma.

Certo quanto precede, non può essere accolta la istanza del Procuratore Generale, in quanto l’infondatezza palese dei motivi di ricorso non appare sostenuta da una condotta consapevolmente contraria alla buona fede o ad un uso strumentale del processo (Cass. SS.UU. 25831 del 2007; di recente, Cass. 8 maggio 2013 n. 10720). In altri termini, le ragioni di doglianza svolte dal ricorrente si sono soltanto estrinsecate nella prospettazione di tesi giuridiche infondate, senza però che detta prospettazione possa essere ritenuta espressione di colpa grave, derivante dalla mancata adozione della minima diligenza e prudenza nell’approfondimento delle tesi portate nel dibattito processuale.
p.q.m.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese forfettarie ed accessori, come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 17 dicembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2015

Credits:http://www.overlex.com

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